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CASA HOWARD
(HOWARDS END)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 13 maggio 1992
 
di James Ivory, con Anthony Hopkins, Vanessa Redgrave, Emma Thompson, Helena Bonham Carter (Gran Bretagna, 1992)
 
Attorno a casa Howard, il confronto fra due famiglie nell'Inghilterra d'inizio secolo: emancipata, colta, appassionata la prima. Conformista, tradizionale, materialista la seconda. Fra le due, un giovane impiegato di banca: l'irruzione - a complicare ulteriormente le cose - delle aspirazioni di una nuova classe popolare. Che, manco dirlo, finiranno sacrificate.

Il cinema dell'autore di HEATH AND DUST e di CAMERA CON VISTA, come quello dei Minnelli dei Cukor ai quali sovente si apparenta è sempre stato fra i più attenti ad ogni minimo elemento che entri a far parte dell'inquadratura: questa strada, ormai rarissima, della minuzia, dell'estrema raffinatezza compositiva, porta diritto al rischio dell'estetismo e dell'accademismo. Ivory, in tutta la sua carriera, ha descritto il passato, le terre lontane, come l'India che ben conosceva: e ciò gli ha permesso di sviluppare una sua costante, quella della passione contrastata, preferibilmente all'interno dello scontro fra due civiltà, del passaggio delle consegne fra due epoche, due classi sociali, due concetti di vita.

Adattando HOWARDS END, il romanzo più elaborato di Foster, Ivory trova un intrigo particolarmente denso ed una sceneggiatura impeccabile (firmata dalla compagna di sempre Ruth Prawer Jhabvala). Forse proprio per questo, il film s'iscrive perfettamente in questa tematica, ed è uno dei più incantevoli che Ivory abbia mai fatto.

Lontano da certi preziosismi dell'immagine che costituivano talvolta il limite di queste sue trascrizioni letterarie, recitato in modo indimenticabile dagli attori della grande tradizione britannica (la sconvolgente Vanessa Redgrave, la meravigliosa coppia formata da Anthony Hopkins ed Emma Thompson), l'ultimo capitolo del trittico dedicato al romanziere E. M. Foster dispensa le gioie di un'introspezione psicologica, di un'analisi sociale, ma anche politica delle contraddizioni del capitalismo assolutamente deliziosa.

Sotto le spoglie di una sensualità fremente (quel modo di sfiorare l'erba del giardino, i fiori come i tessuti, le pettinature, tutto un inventario d'epoca che è solo affetto, senza pedanteria), di una dolce e accorata poesia, quella del più inglese dei registi nati negli Stati Uniti è una volta ancora la storia di una rivolta nei confronti del conformismo e dell'ipocrisia. Come a pochi altri negli ultimi decenni, ad Ivory riesce di fondere la seduzione visionaria del cinema al fascino meditativo, introspettivo della parola scritta.


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